Avvertenze

- - - - - - - LE RECENSIONI POSSONO CONTENERE SPOILER!!! - - - - - - -

venerdì 25 gennaio 2013

Red Riding Trilogy


Colpevolmente a lungo ignorata qui in Italia (e solo dopo 4 anni approdata nello stivale grazie a Rai 4), “Red Riding” è una trilogia di film per la tv prodotta dalla BBC nel 2009. Ambientata a cavallo tra i ’70 e gli ’80, è tratta dagli omonimi romanzi di David Peace e ci mostra uno spaccato degli Yorkshire di quegli anni che, forse, mai ci saremmo aspettati.
Ogni film reca già nel titolo l’anno in cui si colloca: 1974, 1980 e 1983. I romanzi di Peace, in realtà, sarebbero quattro, con un libro ambientato anche nel 1977. Purtroppo per alcuni problemi in fase di produzione il film relativo a quell’anno non è stato completato. Per fortuna la trilogia funziona benissimo anche così, merito sicuramente dell’ottimo lavoro in fase di adattamento e sceneggiatura di Tony Grisoni.
Per una analisi approfondita e accurata, quindi, ci concentreremo su ogni pellicola separatamente, tirando poi alcune conclusioni generali.

Anno di Nostro Signore: 1974
La regia del primo episodio è affidata a Julian Jarrold che, per dare il più possibile un certo effetto datato alla pellicola, gira in 16mm e si affida a una fotografia che tende spesso al seppia. Il risultato è ottimo, tanto da incupire anche le immagini più chiare e le poche scene soleggiate.
La vicenda prende il via quando un giovane giornalista di nome Eddie Dunford, animato dal desiderio di fare il grande colpo, torna nello Yorkshire dopo essere stato al sud per un certo periodo. Si tratta di un convincente Andrew Garfield (The Amazing Spider-Man) che, poco a poco, lascerà da parte i suoi desideri di successo in favore, prima, della brama di sapere e, poi, di una disperata sete di giustizia.
Il giornalista comincia ad indagare sulla scomparsa di una ragazzina. Si tratta solo dell’ultima in ordine di tempo, altre sono sparite in passato e mai più ritrovate. Quest’ultima, però, ricompare. Qualcuno l’ha brutalmente violenta, le ha inciso le parole “4 LUV” (trad. it. “per amore”) sul torace e ha cercato di cucirle delle ali di cigno alla schiena. La pista che segue Dunford è spezzettata, con tante strade a fondo chiuso, e procede in alcuni momenti solo grazie alle soffiate, in particolare quelle di BJ, interpretato da un grande Robert Sheehan (Misfits, L’Ultimo dei Templari), un prostituto omosessuale. Seguendo gli indizi finirà per innamorarsi della madre di una delle bambine rapite in precedenza, a scontrarsi con la polizia del posto, estremamente violenta e corrotta, tanto da non aver remore a incastrare un innocente pur di avere un capro espiatorio, e sulle tracce di John Dawson, un costruttore del posto, interpretato da un viscido e borioso Sean Bean (007 GoldenEye, Il Signore degli Anelli, etc.), con la passione per i cigni.
Messi insieme i pezzi del puzzle di cui riesce a venire in possesso, incapace, ormai, di venir fuori in qualche modo dalla palude di inganni in cui è finito a sguazzare, senza speranza di poter rendere pubblico ciò che ha scoperto e accusato anche dell’omicidio della donna che amava, Dunford tenterà di farsi giustizia da solo al Karachi Club, in un finale estremamente cupo e drammatico.

Anno di Nostro Signore: 1980
La regia di questo secondo film è affidata a James Marsch che, per distaccarsi da quanto fatto da Jarrold, sceglie una fotografia più classica e di girare in 35mm. La differenza è evidente e salta subito all’occhio. Le immagini sono più pulite, danno chiaramente l’impressione di essere più recenti, migliori, se confrontate con quelle sporche e grezze che contraddistinguevano il 1974.
Sono passati sei anni dall’ultimo caso di una bambina scomparsa, da allora non è più successo nulla di simile, per cui anche l’opinione pubblica è convinta che l’assassino sia stato arrestato e sia dietro le sbarre. In compenso vi è qualcun altro che occupa le prime pagine dei giornali. Un serial-killer di prostitute che sembra prendere in giro la polizia da fin troppo tempo, eludendo i tentativi di individuarlo e inviando lettere di volta in volta derisorie o in cui rivendica la paternità di nuovi delitti.
Messi alle strette, i poliziotti dello Yorkshire saranno costretti a chiedere aiuto. Da Londra gli viene inviato un detective che già sei anni prima aveva indagato, senza risultati perchè più volte depistato, sulla strage del Karachi Club. Paddy Considine interpreta uno stanco Peter Hunter con un po’ troppi scheletri nell’armadio. Nonostante il peso che porta sulle spalle e la sensazione che tutti lo ritengano inadeguato e incapace, Hunter si mette sotto per cercare di scoprire chi sia il killer che ormai tutti chiamano “Lo Squartatore”. Anche questa volta le sue indagini verranno ostacolate e depistate dalla stessa polizia dello Yorkshire. In parte per non dover dare il merito dell’arresto a un forestiero, ma soprattutto perchè, come Hunter scoprirà, lo Squartatore non è il responsabile di tutti gli omicidi che gli vengono addebitati.
Alcune morti, infatti, potrebbero essere state compiute proprio da alcuni agenti di polizia nel tentativo di tenere nascosto qualcosa d’altro. Prima che Hunter possa andare più a fondo, però, verrà tradito proprio da uno dei collaboratori di cui si fidava maggiormente e che aveva voluto portarsi dietro da Londra. Una condotta personale non del tutto ineccepibile, infine, sarà la scusa per porre la parola fine alla sua carriera e alla sua reputazione tra dubbi e malignità.
Dei tre film è forse quello che risulta un po’ più avulso dalle sottotrame comuni a tutta la trilogia, questo perchè in origine la vicenda era quella maggiormente legata al romanzo ambientato nel 1977 (in cui iniziano gli omicidi dello Squartatore). Emergono, comunque, alcuni elementi che si riveleranno importanti e decisivi nel terzo e ultimo film che tirerà i fili rimasti in sospeso nelle pellicole precedenti.

Anno di Nostro Signore: 1983
Terzo e ultimo film della trilogia, questa volta la regia tocca ad Anand Tucker che, come i suoi predecessori, sceglie di cambiare ancora metodo e stile di ripresa optando per il digitale e la Red One Camera.
Dopo nove anni di silenzio in cui sia l’opinione pubblica che gli spettatori erano convinti che il rapitore e seviziatore di bambine fosse stato fermato nel 1974 (perchè in galera o ucciso da Dunford), avviene una nuova scomparsa.
Questa volta i protagonisti della vicenda sono più di uno. Da una parte facciamo la conoscenza con John Piggott, interpretato da Mark Addy (Full Monty, Game of Thrones), un avvocato che ha da poco perso il padre, sergente di polizia dello Yorkshire suicidatosi (o suicidato) in circostanze poco chiare. A lui si rivolgono i parenti di Michael Myshkin, il capro espiatorio incarcerato ingiustamente dal 1974, perchè tenti di farlo uscire alla luce del nuovo rapimento.
Dall’altra approfondiamo la conoscenza di un personaggio già presente nei primi due film, ma rimasto sempre sullo sfondo con un ruolo equivoco, mai chiaramente buono o cattivo. Si tratta di Maurice Jobson, interpretato da un tormentato David Morrissey (Doctor Who – The Next Doctor, The Walking Dead), investigatore della polizia dello Yorkshire, da sempre nel giro della corruzione, che ci mostra, finalmente, il dietro le quinte di come funzionano le cose al nord. In realtà l’impressione è che lui, nel giro, ci sia finito più per caso che per vera vocazione e che anche le violenze a cui assiste tenti di giustificarsele come un modo spiccio per fare vera giustizia. La sparizione della nuova bambina, però, accendono in lui nuovi sensi di colpa. Assistiamo, così, alla sua indagine che si svolge in due tempi, nel 1983 e nel 1974, in una serie di flash-back che ci mostrano cosa successe allora. Al tempo, infatti, lui sembrava aver trovato una pista che portava (anche nel suo caso) molto vicino a Dawson, ma gli venne fatto capire di lasciar perdere e quando gli dissero che il rapitore aveva confessato, lui ci credette. Complice l’interruzione nelle sparizioni delle bambine, anche lui si convinse che il vero assassino era in galera. Nel 1983, però, non è più disposto a chiudere un occhio e vuole andare fino in fondo.
Tra minacce, depistaggi e suicidi organizzati, Jobson e Piggott finiranno per giungere nello stesso e alla stessa conclusione, incrociandosi anche con BJ, giunto lì per una vendetta incapace di portare fino in fondo. Si scoprirà, così, che la corruzione e la depravazione tra la polizia dello Yorkshire e alcuni personaggi in vista della comunità locale, andavano molto più a fondo di quanto lo stesso Jobson credeva.
Salvata la bambina rapita e fatta giustizia sommaria dell’esecutore materiale degli omicidi (un insospettabile Peter Mullan), il film si conclude con la sensazione (e la speranza) che finalmente il vaso di Pandora è stato scoperchiato e tutti i responsabili pagheranno.

I romanzi di Peace si prestano benissimo a questa messa in scena. Mescolano, infatti, sapientemente realtà e finzione, creando un intrico di personaggi, fatti, corruzione, violenza e soprusi da cui è impossibile uscire una volta che si è finiti nell’ingranaggio. I film mostrano da una parte delle storie di fantasia, per quanto crude, ma sembrano una perfetta fotografia di quegli anni e della situazione che, stando agli articoli di giornale, davvero si venne a creare in quella zona dell’Inghilterra.
D’altra parte, non tutto è oro quel che luccica. Tutti e tre i film, infatti, risentono di piccole pecche comuni, frutto, probabilmente, del tentativo di condensare e adattare un libro intero in sola un’ora e mezza. Nelle prime due pellicole alcuni passaggi risultano un po’ ostici da capire, in quanto appaiono quasi come voli pindarici, senza connessione logica (o spiegazione esplicita) con gli eventi precedenti, ma si posson giustificare con il fatto di voler rendere i tentativi a random dei protagonisti per portare avanti le loro indagini. Nel terzo film, infine, a questi piccoli difetti (per quanto meno evidenti) se ne aggiunge un altro che riguarda, però, la fotografia. Tucker, infatti, sceglie di caratterizzare i due periodi storici che mostra con una diversa fotografia, andando a ripescare certi colori un po’ tendenti al seppia per il 1974 (a ricordare il primo film della trilogia). Purtroppo la fotografia non lo aiuta sempre in questo intento e, più volte, capita di poter distinguere l’anno solo dal tipo di vestiti indossati (pantaloni a zampa) o dal modello di auto che si guidano. Quando, però, i personaggi son inquadrati solo dalla vita in su e indossano delle giacche pesanti, diviene quasi impossibile riuscire nell’intento.
Si tratta, comunque, di errori che non pregiudicano la visione della trilogia o la comprensione degli intrighi. Tutt’al più potrebbero spingere qualcuno a cimentarsi nuovamente nella visione, per approfondire alcuni aspetti delle vicende (come capitato al sottoscritto). Si tratterebbe, in questo caso, di un peccato veniale che siamo più che disposti a perdonargli, perchè il livello (non solo del cast e delle prove attoriali) è davvero altissimo.

mercoledì 23 gennaio 2013

Douglas Adams - "Ristorante al Termine dell'Universo"

Autore: Douglas Adams
Titolo: "Ristorante al Termine dell'Universo"
Edizione: Mondadori - I Libri di Urania n° 17
Anno: 1994

Che dire che non sia stato già detto da altri? 
Quando ci si confronta con libri come questo, tanto letti e tanto apprezzati da tutti gli appassionati di fantascienza, ma anche da tutti coloro che vogliono concedersi una sana risata, risulta difficile essere originali. Anche perchè tutta l'originalità sembra essere confluita proprio nel romanzo che si ha tra le mani, come una sorta di micro-buco nero che assorbe e concentra quantità esorbitanti di trovate (a tratti geniali) e comicità. 
Forse non sarà ai livelli (altissimi) del primo volume della saga, ma di certo regge bene il confronto. Anzi, in alcuni punti riesce a risultare anche migliore, forse perchè senza più la zavorra del dover presentare i personaggi, riesce a volare libero dove più gli aggrada. Certo, c'è qualche passaggio che sembra girare un po' meno fluidamente del solito e alcune descrizioni si dilungano un po' troppo, ma son errori che possiamo considerare poco più che veniali e che siam ben disposti a perdonare in virtù delle risate a cui preludono. 
Come spesso accade, però, quando si ha a che fare con autori di un certo stampo (oltre ad Adams mi vien in mente un Terry Pratchett a caso), le risate non son del tutto fini a se stesse. Naturalmente ci son le battute messe lì per strappare il sorriso o anche lo scoppio sguaiato, ma tante situazioni, tanti personaggi, sembran fatti per farci pensare. Ritornando con la mente a quanto si è letto, infatti, si riconoscon per quello che sono metafore o satire della realtà, della politica, fin'anche dei massimi sistemi. 
In questo sta, a mio avviso, il motivo per cui i pochi romanzi del ciclo della Guida Galattica sono divenuti così famosi e apprezzati. Perchè non si limitano ad essere libretti comici o umoristici (per quanto ne siano pieni e, anche limitandoci a questi livello di lettura, di qualità altissima... posto di apprezzare l'humor britannico), ma sfruttano il riso come cavallo di troia per portare il lettore a usare la propria testa, a ragionare e a porsi delle domande.

mercoledì 9 gennaio 2013

Alan Moore - "Writing for Comics"

Autore: Alan Moore
Titolo: "Writing for Comics"
Edizione: Panini Comics
Anno: 2012

Da un grande scrittore ci si aspettano sempre grandi cose. Lo stesso Alan Moore ne parla nella post-fazione a questo suo "Writing for Comics". In realtà lui si riferisce al fatto che uno scrittore dovrebbe sempre rifuggire uno "stile" e continuare a sperimentare, a fare cose nuove e diverse, perchè non finisca incasellato dai lettori come "quello che...". 
Eppure anche l'essere considerato "un grande", è di per sé una sorta di etichetta, di modo per incasellare un autore. Una definizione che a Moore deve risultare anche pesante da portare, perchè nel suo caso non importa cosa faccia, in quale genere, stile o tematica, deve sempre essere un capolavoro. Colpa anche sua, chiaramente, che ci ha così ben abituato nel corso degli anni con titoli e run uno più bello dell'altra. 
Per questo motivo l'aspirante sceneggiatore che ancora non si è fatto scoraggiare dalle condizioni in cui versa il mercato (in particolare italiano), potrebbe accostarsi nel modo sbagliato a questo libro. Se si attendesse un manuale di sceneggiatura, pieno di trucchi del mestiere in grado di trasformarlo, di punto in bianco, in un nuovoAlan Moore, rimarrebbe molto deluso. Il volume, infatti, è più che altro una raccolta di pensieri, riflessioni, congetture e conclusioni su come vengono scritti i fumetti (all'ora quando fu scritto, ma anche oggi, perchè le cose non son cambiate poi molto, purtroppo) e come, invece, DOVREBBERO essere scritti. 
Niente trucchi, niente tabelle, schede tecniche, etc. ma un lungo monologo (per altro scorrevolissimo) su come bisognerebbe scrivere. Certo, qualche consiglio qui e là c'è, su come organizzare il lavoro, ma quelle son cose che uno dovrebbe imparare (o aver già imparato) altrove. Quello che fa Moore, invece, è cercare di aprire la mente agli sceneggiatori perchè non scrivano cose banali, perchè siano originali e innovativi, perchè siano autori di un certo livello e le loro opere possano lasciare il segno. 
In questo senso è un'opera più che raccomandabile e meritoria, di cui andrebbe consigliata la lettura a tanti scrittori che si limitano a riempire le pagine di CRASH e BOOM. Purtroppo, guardandoci attorno, ci rendiamo conto che non son pochi. 
Allo stesso tempo, però, è anche un testo che può essere capace di farci guardare, tutti noi, al mondo sotto un altro punto di vista. Non è il suo primo obiettivo e, sinceramente, credo che neanche Moore immaginasse qualcosa di simile quando l'ha scritto, ma le "regole" di "Writing for Comics" si possono adattare a un gran numero di lavori e situazioni, rimanendo sempre valide. 
Probabilmente, quindi, sarà anche il peggior manuale di scrittura fumettistica in circolazione (in quanto non insegna nulla, ma dà solo concetti vaghi e sprona a lasciar libera la mente), ma è una lettura tutt'altro che disprezzabile.

venerdì 4 gennaio 2013

Mario Rigoni Stern - "I Racconti di Guerra"

Autore: Mario Rigoni Stern
Titolo: "I Racconti di Guerra"
Edizione: Einaudi - ET
Anno: 2006

"Solo chi l'ha vissuta può sapere cosa è la guerra" un assunto con cui, speriamo, molti di noi non dovranno mai fare i conti. Chi l'ha vissuta, invece, è Mario Rigoni Stern. Un "non-scrittore", come definito da molti critici letterari, per il suo scrivere semplice, diretto, lineare, senza giri di parole e infiorettature.
Eppure questo "non-scrittore" avrebbe da insegnare a molti, moltissimi, cosa significa creare e descrivere personaggi vivi, reali, che escono dalla pagina. In questi "Racconti di Guerra" trovano spazio sia fatti reali, in alcuni casi anche autobiografici, che vicende inventate, per quanto sempre realistiche, ma lo stacco tra gli uni e gli altri non si avverte mai. Questo perchè lo stile di Rigoni Stern colpisce direttamente alla pancia, fa leva sulle emozioni e sui sentimenti in maniera genuina, senza trucchi o facili scorciatoie. Quella che lui descrive così magnificamente è un'umanità vera, il più delle volte povera e disperata, ma che non perde mai una sua dignità e in cui brillano, spesso, gesti di immensa pietà o indicibili orrori.
Nel libro sono inseriti anche dei racconti che son, in realtà, rapidi riassunti di certe fasi della guerra o di vicende politiche internazionali. In questi casi ci troviamo di fronte a quelli che appaiono quasi come i capitoli di un libro di storia. Pur facendo, quindi, parte delle opere pubblicate dell'autore dell'altopiano di Asiago sul tema della guerra, le caratteristiche di questi scritti li rendono diversi dai racconti veri e propri. Per questo alcuni potrebbero preferire, per mantenere una maggiore unità stilistica, che fossero presentati in un volume a sé stante.
In realtà l'alternarsi di questi scritti permette al lettore di capire sempre, di volta in volta, anche il contesto geografico, tattico o storico in cui son ambientate le vicende. Oltre allo sguardo nel piccolo, nel quotidiano, dei singoli soldati, con le loro storie piene di speranza e disperazione, questo volume riesce a dare anche una vista globale sui motivi per cui tanta gente è dovuta andare a combattere e non è più tornata.
Un libro da leggere e rileggere, come buona parte delle opere di Mario Rigoni Stern, perchè sempre capace di regalare emozioni e, soprattutto, di insegnare. Se non fosse che tutto quello che passa per le scuole gli studenti imparano automaticamente ad odiarlo, questo volume e "Il Sergente nella Neve" dovrebbero diventare libri di testo.